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Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/06/2005 - Anno: 11 - Numero: 2 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

FIGURE DI QUEL Dì

Letture: 1291               AUTORE: Ulderico Nisticò (Altri articoli dell'autore)        

Un tempo neanche troppo lontano c’erano, e qualche traccia ce n’è ancora, due figure curiose, nei nostri paesi: le monache di casa, e i diaconi selvatici. Chi erano costoro?
La monaca di casa non era una vera monaca, e nemmeno stava in convento o in comunità. Si chiamava perciò, nelle categorie della Chiesa, “virgo in capillis”, cioè monaca senza tonsura, senza abiti particolari. A volte era una terziaria o domenicana o francescana o di qualche congregazione di suore regolari, ma più spesso fu solo una zitella che si dedicava a tempo pieno alla cura delle chiese, e a tiranneggiare i nipoti negli intervalli.
Non tutte le ragazze si sposavano, ma restavano escluse o quelle troppo malaticce o troppo caratteriali. La sorte di queste zitelle era per alcune profana, per altre sacra, per non poche l’una e l’altra cosa, però in segreto. Le monache di casa erano ufficialmente tutte illibate e irreprensibili; e, ad onor del vero e loro, molte effettivamente lo erano. Di alcune si raccontavano leggende e pettegolezzi, o si attribuiva loro un burrascoso passato. Il più delle volte, erano solo ragazze senza occasione di sposarsi all’età giusta, che allora era molto bassa.
Se benestanti, avrebbero lasciato eredità ai nipoti, e questi si prodigavano per loro, assecondandone anche i capricci. Altre, per vivere, tenevano una scuola di cucito, ricamo, economia domestica: si chiamavano perciò “maìstre”, e avevano una piccola corte di “discipule”. Nel mito calabrese, la maestra più celebre è la Sibilla di Polsi, la discepola è la giovane Maria: quando quella, essendo profetessa, sa che la fanciulla sarà la Madre di Dio, la odia e cerca di impedirlo; finché, sconfitta, non si rifugia in una grotta, dove attira gli uomini. Anche questa tradizione è un segno dell’idea ambigua che si aveva di queste monache di casa, un po’ sacrestane, un po’ vergini, un po’ peccatrici, e depositarie di una sapienza che, in una donna, è sempre stata temuta. E infatti in dialetto dire di una donna “esta ‘na mastra” significa che è astuta e corruttrice. Persino il rifiuto, volontario o forzato, della maternità e della sessualità può parere una trasgressione della natura e della condizione femminile: la vergine può essere consacrata a Dio come all’Inferno.
Più banali figure erano quelle dei sacrestani o scaccini, i quali erano solo dei salariati delle parrocchie e chiese. Le custodivano, badavano alla pulizia e al minuto mantenimento delle strutture, passavano con il bussolotto per le offerte, accompagnavano i sacerdoti, e, se erano giovani e robusti, li scortavano armati nei viaggi. Non era loro necessaria alcuna consacrazione, né pronunziavano voti, solo, almeno formalmente, erano loro richiesti un comportamento e una moralità consoni alla funzione. In tempi in cui i costumi dei maschi erano volutamente rustici, questi sacrestani erano oggetto di satira.
Ma anche di invidia. La loro condizione pareva infatti privilegiata rispetto a quanti dovevano lavorare con più sudore; e godevano anche di vantaggi, tra cui essere giudicati dal Tribunale Ecclesiastico sia nelle vertenze civili sia in quelle criminali, e di essere esentati, in parte o in toto, dal pagamento degli oneri fiscali, dell’ambito titolo di “persona ecclesiastica”, che quasi li equiparava ai sacerdoti e monaci, e li poneva sotto la protezione della Chiesa. Li chiamavano anche “diaconi selvatici”, o “selvaggi”. E fu così che migliaia di persone cercarono di farsi investire del diaconato, e si sottraevano al potere civile, e questo cercava di difendersi e rivendicare le sue prerogative, e si scatenò un contenzioso durato secoli.
Quante posizioni di certe famiglie di paese, poi nobili e ricche, e magari giacobine e massoniche, hanno origine nei poco magnanimi lombi di qualche vero o falso sacrestano?
C’erano poi gli eremiti, ora santi uomini, ora solo strambi e visionari, che vivevano vicino a chiesette di campagna, pregavano e aspettavano offerte dei fedeli. Nella tradizione calabrese non sono avvolti di sacralità: in dialetto, “u romitu” non è un mistico da venerare, ma un saturnino, un asociale, che è meglio se ne stia da solo. Se non altro, però, tenevano in ordine quelle belle chiesette che sacralizzavano il paesaggio, e che oggi sono malinconici ruderi.


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